COPERTINA

PORTALE CHIMICO/TECNOLOGICO

 



La MOZZARELLA DI BUFALALA di BUFALA


La mozzarella è un prodotto lattiero caseario tecnicamente identificato come formaggio a pasta filata, si può ottenere usando sia latte Vaccino che latte Bufalino, i prodotti che ne conseguono saranno tipici per la produzione effettuata. 

Il latte di bufala ha una composizione diversa da quella di altre specie animali utilizzate per la produzione di formaggio, rispetto a quello di vacca e pecora ad esempio, è più ricco di proteine, grassi e soprattutto calcio totale. 


Queste caratteristiche chimiche permettono a chi lo trasforma di ottenere delle rese di caseificazione pari al doppio di quelle che in genere si ottengono con il latte di mucca. Un’altra caratteristica singolare è l’assenza di carotenoidi nella sua composizione, ciò si trasmette nelle caratteristiche del prodotto finito nell’assunzione del tipico ed unico colore bianco porcellanato della Mozzarella di Bufala Campana. Il latte prodotto nelle aziende agricole viene trasportato in tempi brevissimi negli stabilimenti di produzione dove viene sottoposto a tutti i controlli igienico-sanitari e a quelli ulteriori del Disciplinare prima di dare inizio alla vera e propria lavorazione.


La coagulazione è preceduta dall’aggiunta nel latte, portato precedentemente ad una temperatura tra i 33 e 39°C, di siero innesto naturale (detto cizza) proveniente dalla lavorazione medesima del giorno precedente. Tale aggiunta serve a rendere il latte attivo e pronto per la immediata e successiva coagulazione che viene effettuata in caldaie o polivalenti in acciaio, mediante esclusivo utilizzo di caglio naturale di vitello.


Dopo alcuni minuti che il latte è rappreso per l’intervento del caglio, si procede alla rottura degli stessi grumi caseosi con un attrezzo denominato “spino” che li riduce fino ad una grandezza di poco più di una noce. A partire da questo momento si verifica la separazione tra la fase solida e la fase liquida del latte (sineresi). La fase liquida, allontanata mediante prelievo, è detta “siero dolce” ed è la materia prima con cui si ricaverà la squisita Ricotta di Bufala Campana, mentre la fase solida è detta cagliata. Quest’ultima è lasciata acidificare sotto siero fino a quando sarà definita “matura”o “pronta” per la filatura dal casaro, mediante il saggio di filatura che esegue personalmente.


Questa prova empirica, ma assolutamente attendibile nelle mani esperte di una mastro casaro, consiste nell’aggiungere acqua bollente a circa mezzo chilogrammo di cagliata sminuzzata che, amalgamata fino a farla fondere, viene tesa con le mani ed un bastoncino di legno: se si allunga uniformemente senza spezzarsi, è giudicata “pronta” per la fase successiva di filatura. La cagliata al giusto grado di maturazione viene posta su tavoli spersoi dove avviene lo spurgo di tutto il siero residuo, successivamente viene tagliata a listarelle e riposta in particolari contenitori, ancora oggi prodotti in legno chiamati “mastelli”, dove viene aggiunta acqua bollente. Il contatto tra acqua bollente e cagliata provoca la fusione della massa che viene di continuo sollevata e tirata fino ad ottenere un unico corpo omogeneo.




Nella stragrande maggioranza dei caseifici una parte non trascurabile della fase di formatura è effettuata dal casaro e dai suoi collaboratori manualmente, la restante parte è effettuata con l’ausilio di macchine operatrici dette formatrici che producono pezzature a peso predeterminato.



La Mozzarella di Bufala Campana così prodotta viene dapprima lasciata in vasche contenenti acqua fredda per garantire un primo importante rassodamento, che si completa in altre vasche contenenti anche soluzione saline che conferiscono al prodotto il giusto grado finale di sapidità. Oltre alla forma tondeggiante che parte dai 20 grammi (perlina, ciliegina, bocconcino), il disciplinare di produzione prevede diverse altre tipologie, quali, nodini e trecce fino a tre chilogrammi.


DISCIPLINARE DI PRODUZIONE


http://www.mozzarelladop.it/pdf/disciplinare_mozzarella_2008.pdf













Il Destrosio





Il destrosio è uno zucchero monosaccaride chimicamente uguale al glucosio, sono due nomi infatti per la stessa molecola. Viene ricavato dall’amido di mais e utilizzato in polvere, lo sciroppo di glucosio invece non è glucosio puro. Meno dolce del saccarosio, ha un altissimo potere anticongelante e anticristallizzante e per questo viene aggiunto nei gelati perché ne rende il composto poco elastico. Inoltre è utilizzato per dolcificare bevande o budini e per l’imbrunimento, la lievitazione e la conservazione dei prodotti da forno. Si scioglie perfettamente in acqua fredda e tiepida.


È usato per: Produzione di caramelle, in confetteria e per i ripieni nei quali favorisce la morbidezza e l'untuosità; Nelle cotture dello zucchero perché ne evita la cristallizzazione; Nelle preparazioni da forno perché ne accentua la reazione di Maillard.


La Destrosio equivalenza o Destrosio equivalente (DE) è un parametro che misura il grado di idrolisi dei carboidrati, in particolare di polimeri del glucosio derivati dall'amido, in base alla lunghezza delle catene polimeriche da cui sono formati, in rapporto al valore di riferimento del glucosio (il destrosio è sinonimo di D-glucosio). È una misura della quantità di zuccheri riducenti presenti in un carboidrato, rispetto al glucosio, espresso in percentuale su base secca. In altri termini rappresenta la percentuale di idrolisi dei legami glicosidici presenti. A livello industriale vengono aggiunti all'amido degli enzimi che scindono i suoi legami, dando origine a catene di glucosio molto più brevi (maltosio, destrine) o singole unità di glucosio. Questo valore, oltre che per l'uso in campo industriale, è inoltre utilizzato per misurare la qualità di alcuni integratori di carboidrati come le maltodestrine in ambito sportivo/alimentare.Durante l'idrolisi dell'amido, la DE indica la misura in cui l'amido è stato scisso. 

L'idrolisi acida dell'amido è utilizzata da tempo per produrre degli sciroppi di glucosio, ma anche il glucosio cristallino (destrosio monoidrato). Quantità notevoli di sciroppi a DE 42 sono prodotti usando acido e sono utilizzati in molte applicazioni in pasticceria. Ulteriori processi di idrolisi con acido non è soddisfacente a causa dei prodotti di degradazione eccessivamente colorati e aromatizzati. L'idrolisi acida sembra essere un processo del tutto casuale che non è influenzato dalla presenza di legami 1.6 α-glicosidici. Il valore 100 equivale ad una soluzione di glucosio puro, il 50 ad una di maltosio, le maltodestrine hanno una DE compresa mediamente tra il 5 e il 20, gli sciroppi di glucosio hanno un valore compreso tra 30 e 60, mentre l'amido ha una DE attorno allo 0.In tempi recenti si è diffusa la credenza, supportata da qualche testo sull'alimentazione e sito internet, che una bassa destrosio equivalenza, e quindi una conformazione che prevede catene polimeriche di glucosio più lunghe, equivalga ad un indice glicemico proporzionalmente ridotto.

 Tale convinzione deriva dal fatto che i carboidrati complessi, come l'amido (polimero del glucosio), prevedano tempi di digestione e assimilazione relativamente più lunghi rispetto al glucosio, e quindi un indice glicemico più basso. In base a questa constatazione, alcuni hanno dedotto, senza alcun supporto scientifico, che la complessità di un polimero del glucosio ed il suo peso molecolare fossero di conseguenza inversamente proporzionali al indice glicemico. In realtà sono altri i fattori che alterano i tempi di assimilazione di un carboidrato, ad esempio:
  • esistono anche cibi ricchi di amido con un indice glicemico molto alto (~90), pur essendo l'amido per definizione a DE 0
  • i tempi di assimilazione dell'amido contenuto negli alimenti sono alterati dalla composizione stessa del cibo;
  • la digeribilità dell'amido è stabilita anche dal rapporto tra amilosio e amilopectina;
  • la velocità di assimilazione è anche modificata dai tempi di cottura;
  • l'amido puro è in genere più rapidamente assimilabile dell'amido contenuto in un alimento;
  • l'amido trattato con agenti chimici per idrolisi (una sorta di pre-digestione) viene reso naturalmente più digeribile;
  • i prodotti derivati dall'idrolisi dell'amido hanno generalmente un indice glicemico pari al glucosio o superiore;
  • integratori composti da polimeri del glucosio (come gli oligomeri) vengono assorbiti più rapidamente del glucosio;




Da queste osservazioni si capisce che non è la complessità di un carboidrato, la lunghezza delle catene polimeriche, ed il peso molecolare, a determinarne l'indice glicemico. I polisaccaridi, in quanto tali, non hanno necessariamente un indice glicemico più basso del glucosio. In sostanza molti hanno interpretato la destrosio equivalenza come una sorta di parametro simile all'indice glicemico, ovvero con la proprietà di stimare i tempi di assimilazione di un carboidrato e la proprietà di incidere sui valori della glicemia. In realtà la destrosio equivalenza misura solo il grado di polimerizzazione e il peso molecolare di un glucide, ma ciò non si traduce di conseguenza in un indice glicemico basso, o più basso, e non stima i tempi di assimilazione.


 Maggiore è la destrosio equivalenza, più corte sono le catene di glucosio, maggiore è la dolcezza, maggiore è la solubilità, e minore è la resistenza al calore. Tutto ciò non ha a che vedere con i valori dell'indice glicemico. Dopotutto, il processo di idrolisi artificiale che modifica l'amido rende tale elemento più digeribile rispetto alla sua forma originaria. I tempi di assimilazione e la conseguente risposta insulinica non sembrano essere influenzati dalla lunghezza delle catene di glucosio. Studi dimostrano che una soluzione a base di polimeri del glucosio subisce uno svuotamento gastrico più rapido e favorisce un'assimilazione più rapida rispetto ad una soluzione isocalorica di glucosio all'interno della stessa quantità di acqua, mentre sembra che il glucosio abbia un ruolo inibitorio sullo svuotamento gastrico. 

L'esempio più emblematico è rappresentato dall'integratore di carboidrati chiamato Vitargo, il quale presenta un peso molecolare elevatissimo (tra 500,000 e 700,000 dalton), quindi una bassissima destrosio equivalenza, ma un indice glicemico superiore a quello del glucosio (oltre 137 in rapporto al pane bianco; o 100 in rapporto al glucosio), nonché tempi di assimilazione addirittura più rapidi per la sua bassa osmolarità. Anche le maltodestrine, carboidrato ottenuto dall'idrolisi dell'amido, mantiene un buon grado di polimerizzazione, un peso molecolare medio (tra 1,000 e 10,000 d), ma un indice glicemico superiore o simile a quello del glucosio nonostante la struttura complessa. Discorso analogo per lo sciroppo di glucosio (tra 250 e 1,000 d) o per altri derivati dall'idrolisi dell'amido. Gli integratori come Vitargo o maltodestrine, dal peso molecolare più elevato, ma anche dal indice glicemico molto elevato, presentano il vantaggio non indifferente di riuscire a passare il tratto gastrico e subire l'assorbimento intestinale più rapidamente del glucosio, se assunti a parità calorica all'interno di una stessa dose di liquido. 

Questo grazie alla ridotta osmolarità che creano all'interno di una bevanda rispetto ad una quantità isocalorica di glucosio. questo punto, ulteriori equivoci sono stati diffusi dalle conclusioni che il peso molecolare di tutti i polimeri del glucosio sia inversamente proporzionale ai tempi di assimilazione a causa della bassa osmolarità e la conseguente rapidità di assorbimento intestinale. Queste caratteristiche da alcuni sono state estese anche ad altri integratori glucidici dal peso molecolare medio o elevato, che però corrispondevano ad un indice glicemico basso. Molti studi clinici hanno smentito sul nascere queste dicerie. Ad esempio l'amido di mais ceroso (amido composto dal 100% di amilopectina, la frazione dell'amido più digeribile), pur avendo un elevato peso molecolare e una composizione più digeribile dell'amilosio, risultava a basso indice glicemico. 


Alcune aziende tuttavia lo hanno commercializzato come carboidrato ad alto indice glicemico attribuendogli proprietà analoghe a quelle del Vitargo, per il semplice motivo che nei primi anni tale marchio lo utilizzava come materia d'origine per la produzione del proprio prodotto (in seguito venne sostituita con altre fonti amidacee).











La COLMATRICE ROTATIVA SOTTOVUOTO 





La colmatrice rotativa è una macchina automatica specifica per il riempimento sottovuoto di contenitori di vetro e in banda stagnata di diverse dimensioni e forma contenenti verdura o frutta intera o cubettata con liquidi di governo quali olio, aceto, salamoia, sciroppi, salse, ecc..
La colmatrice è una macchina ad alto contenuto tecnologico che garantisce una grande affidabilità e un’eccezionale durata anche nelle condizioni di lavoro più gravose. Il basamento della colmatrice, generalmente, costruito tutto in AISI 304, è composto da robusti elementi di lamiera pressopiegata, da una piastra di elevato spessore, da pannelli laterali di chiusura e da una canala perimetrale di raccolta acqua.


La parte superiore della piastra è lavorata con un’elevata precisione, mediante macchina utensile, per consentire il corretto montaggio di tutte le attrezzature della macchina. La colonna centrale permette la regolazione in altezza per i vari formati dei contenitori e costituisce il supporto per la vasca di stoccaggio e per le altre attrezzature che compongono la macchina. Sulla vasca di stoccaggio prodotto sono montate le valvole di colmatura che permettono una costante e regolare colmatura con il liquido di governo mantenuto alla temperatura desiderata da una serpentina alimentata a vapore comandata da termoregolatore posto a quadro elettrico. Le valvole di colmatura possono essere di due tipi: con movimento di lavoro assiale e con movimento di lavoro rotante.

La trasmissione del movimento, dalla colonna centrale alle varie attrezzature della macchina, avviene mediante una serie di ingranaggi cilindrici a denti elicoidali costruiti alternativamente in acciaio al carbonio e in materiale plastico, in modo da garantire un funzionamento regolare e silenzioso. La colonna centrale e il nastro trasportatore sono motorizzati mediante due motoriduttori azionati dai rispettivi inverter, in modo da poter variare in modo indipendente le loro velocità. Le parti della colmatrice che sono a contatto con il prodotto sono costruite, a seconda delle necessità, in AISI 304 o 316 e con materiali idonei al contatto con prodotti alimentari.
 La coclea, le stelle e le guide per il trasferimento dei contenitori sono realizzate i P.E.H.D. a basso coefficiente d’attrito.


L'AISI 304 o Acciaio X5CrNi1810 è una lega di acciaio inox austenitica composta da un tenore di Cromo (Cr) tra il 18% ed il 20% e di Nichel (Ni) tra l'8% e l'11%; la sua densità è pari a 7,9 kg/dm3.
Il 304L è contraddistinto da un più basso tenore di Carbonio (C), inferiore allo 0.035% (il 304 ammette fino a 0.080%).

La designazione data è quella di uso più generale, ed origina dall'American Iron and Steel Institute poi recepita dall'ASTM con norma ASTM A 240; le designazioni alternative sono:





AISI
UNI
W.Nr
AISI 304
UNI/EN 10088
X5 CrNi 18 10 W. Nr. 1.4301
AISI 304 L
UNI/EN 10088
X2 CrNi 18 9 W-Nr. 1.4307







Questo acciaio è anche noto come "acciaio inox 18/10" e il principale utilizzo di questi acciai riguarda sicuramente le pentole e i servizi di posate; l'espressione "pentole in acciaio inox 18/10" è entrata ormai nell'uso quotidiano.


Il principio di funzionamento della macchina si basa sul colmare in sottovuoto utilizzando il liquido di governo (quali olio, aceto e salamoia etc.) vasi o scatole contenenti verdura, frutta o altri prodotti solidi interi o cubettati. I contenitori riempiti con prodotti solidi (olive, funghi, pomodori etc.) in arrivo dal trasportatore d'ingresso, vengono sincronizzati dalla coclea e tramite la stella vengono posizionati sotto le valvole di colmatura. Terminata l'operazione di colmatura, i contenitori, tramite guida di estrazione, sono convogliati sul trasportatore d'uscita tangenziale alla macchina ed avviati alle successive operazioni.


                                                             Una gigantesca macchina colmatrice


A carattere generale questo tipo di macchine sono formate da un basamento con struttura portante in acciaio al carbonio con rivestimento totale in acciaio inox AISI 304. Il Nastro trasportatore in acciaio inox AISI 304 è composto da una catena table-top montata su guide in materiale plastico antifrizione e guide laterali registrabili per diversi formati, mentre il serbatoio del liquido di governo è lucidato a specchio internamente in acciaio inox AISI 316.
Le valvole ingresso prodotto sono generalmente di tipo sanitario comandate da un controllo di livello, il gruppo vuoto con serbatoio è in acciaio inox AISI 316.
Inoltre troviamo la strumentazione e la pompa del vuoto ad anello liquido, il cambio rapido dei formati e regolazione in altezza elettrica, la motorizzazione macchina ed il nastro trasportatore d'uscita a velocità variabile mediante inverter, ed una protezione antinfortunistica. Infine, un
quadro elettrico di comando in acciaio inox.

Vi proponiamo una serie di dati tecnici di una generica Macchina colmatrice rotativa:





Dati tecnici:

Potenzialità:
12.000 contenitori/ora da 314 gr.
Potenza installata:
Kw 14
Lunghezza:
2.100 mm.
Larghezza:
1.800 mm.


Dimensioni dei contenitori
h min. ÷ mm. 60

h max ÷ mm. 250

Ø min. ÷ mm. 58

Ø min. ÷ mm. 110






I contenitori vuoti vengono trasferiti sotto alle valvole erogatrici dal nastro di ingresso tramite la coclea a passo variabile, sincronizzata alla stella di trasferimento.
All'inizio della zona di riempimento di contenitori si aziona il dispositivo NO CAN NO FILL che consente la prima fase del ciclo cioè l’aspirazione e successivamente tramite le fasi della camma, le valvole determinano il vuoto e il riempimento del liquido e poi la chiusura. La macchina può essere fornita anche di doppio vuoto. 

Ecco elencati i maggiori prodotti industriali ottenuti con l’uso di questa apparecchiatura:

Succhi, sciroppi, salamoia, aceto, passata, olio, polpa, salse, purea di frutta, pomodori pelati, tonno, carne, vegetali, legumi.





PUREA DI FRUTTA


LEGUMI IN SCATOLA O VETRO









           INNOVAZIONE NELLE MACCHINE PER L’INDUSTRIA ALIMENTARE : Il packaging





Agroalimenti eDintorni oggi approda nel mondo dell’innovazione industriale.

E’ priorità per l’industria alimentare considerare un buon sistema packaging nella propria filiera produttiva ed è questo l’intento di molte aziende: prendere dalla Tecnologia dell’innovazione moderna le migliori tecnologie in questo campo per sviluppare un processo più intelligenti e con meno sprechi.  


Agroalimenti e Dintorni, il portale di divulgazione sulla Tecnologia, qualità e sicurezza degli alimenti in uno studio sull’Innovazione industriale si è imbattuto in una fiera Tedesca che come nel 2014 anche nel 2017 sottolineerà l’importanza dello sviluppo della Tecnologia in campo industriale per ridurre i problemi che esistono nelle produzioni.


Garantire massima efficienza, bassi costi, alta qualità è la Mission di tutte le aziende coinvolte nella ricerca e sviluppo delle innovazioni.
E’ questa la linea che l’Interpack 2017, la fiera leader mondiale dedicata all’industria del packaging e a tutte le tecnologie di processo affini che darà il benvenuto a Düsseldorf, dall’4 al 10 maggio 2017 ai suoi visitatori.

Le Nazioni Unite (ONU) stimano che ogni anno la denutrizione sia la causa di decesso per 2,6 milioni di bimbi sotto i cinque anni. La fame resta così uno dei principali problemi dell’umanità. Al contempo ogni giorni sono tante le associazioni che lavorano e combattono per una più equa distribuzione dei viveri, ma, ogni anno finiscono nei rifiuti circa 1,3 miliardi di tonnellate di generi alimentari, come risulta dall’attuale indagine “Food Wastage Footprint: Impacts on Natural Resources” pubblicata dall’Organizzazione per l’alimentazione e l’agricoltura delle Nazioni Unite (FAO). Se si riuscisse a ridurre le perdite con una gestione più responsabile dei beni alimentari, sarebbe possibile arginare le carestie.
 
L’industria ha acquisito questo dato e ha messo a punto uno studio che ha portato all’ottenimento di soluzioni; una di queste include il Packaging. I punti sviluppati sono:

  • ·         Sviluppo di Packaging creative
  • ·         Estirpare la mentalità occidentale dell’usa e getta
  • ·         Riduzione degli sprechi

Il packaging creative consente di comunicare attivamente con il prodotto rinchiuso nella confezione Ne è un esempio l’impiego degli indicatori termo-temporali, che informano in qualsiasi momento sulla freschezza del prodotto. La loro utilità risiede ad esempio nel fatto che in questo modo si possono identificare eventuali interruzioni della catena del freddo.





Il concetto di “Creative” si estende anche agli imballaggi attivi che interagiscono con il contenuto stesso. Le bottiglie in PET vengono trattate con assorbitori di ossigeno come il ferro, in modo che le bevande sensibili all’ossigeno come la birra o i succhi di frutta si conservino più a lungo.
Oppure le pellicole le quali sono arricchite con conservanti come l’acido sorbico per combattere la formazione di germi sugli alimenti.

Tuttavia controversie sull’uso di tali sistemi esistono, infatti i critici ammoniscono che nelle confezioni interattive gli additivi chimici compromettono la naturalezza dei prodotti. A tal proposito dei ricercatori dell'Istituto Fraunhofer per la tecnologia di processo e di confezionamento (Fraunhofer-Institut für Verfahrenstechnik und Verpackung, IVV) di Freising in Germania, sono alla ricerca di un rimedio e stanno sviluppando materiali antimicrobici sulla base di estratti vegetali, come ad esempio il rosmarino. 


Da un’indagine svolta dalla società di consulenza Berndt + Partner, in Europa finiscono nella spazzatura dal 20 al 25 percento dei beni alimentari benché ancora idonei al consumo. In questi numeri sono incluse anche le confezioni chiuse gettate perché scadute anche da pochissimo tempo, i formati giganti e i formati famiglia. In questo caso la soluzione sarebbe quella di produrre confezioni più piccole, adatte alle esigenze dei clienti. Ad esempio, le confezioni monoporzione per single potrebbero contribuire a contenere lo spreco di beni alimentari, questo è ciò che afferma Christian Traumann, amministratore dell’affermata azienda di packaging bavarese MULTIVAC Sepp Haggenmülller.


Nel futuro c’è quindi l’incremento dell’efficienza e dell’igiene degli impianti ed evitare gli scarti già in fase di produzione. Le macchine di nuova generazione, grazie alle innovative tecnologie, e all’innovazione per quanto riguarda materiali e sistemi di gestione, saranno più semplici da usare, agevolmente accessibili e ispezionabili, nonché ancora più facili da pulire.
Questi aspetti tendono ad abbattere le cosiddette Barriere della produzione, le quali anche se piccole possono essere insidiose e pericolose per la qualità finale, nello stesso tempo un componente come le pellicole germicide e gli indicatori già citati prima, consento di mantenere la freschezza e di allungare la conservabilità /sicurezza dell’alimento, questo incipit avrebbe il compito di promuovere l’abbattimento della mentalità consumistica e giocare un ruolo importante sulla riduzione degli sprechi. Il packaging del futuro darà un mix tra qualità costi e produzione.  

Il tema centrale all’interpack 2017 sarà quello della sensibilizzazione. Da un attuale studio del Royal Melbourne Institute of Technology in Australia, l’uso di confezioni idonee può ridurre sensibilmente le perdite di beni alimentari. I progettisti stanno dunque lavorando a pieno ritmo allo sviluppo di macchine imballatrici di nuova concezione, tecnologie di processo correlate e confezioni “intelligenti”. L’obiettivo è riuscire a promuovere il dialogo fra l’economia, la ricerca, la politica e la società civile circa il tema delle perdite di beni alimentari. La riduzione degli sprechi sarà anche l’argomento centrale all’ “Innovationparc Packaging” dell’edizione interpack 2017 a Düsseldorf. Gli espositori di questa mostra speciale utilizzeranno questa piattaforma per presentare dall’7 al 14 maggio 2017 idee su come proteggere meglio le derrate alimentari. Inoltre, in occasione della conferenza SAVE FOOD organizzata presso il Congress Centrum Sud, il 7 e 8 maggio esperti provenienti dalla politica, industria e società avranno modo di discutere sul tema della perdita e spreco di beni alimentari.

Nell’immagine seguente viene proposta una moderna macchina confezionatrice di prodotti al cioccolato.


















Valutazione Tecnico-scientifica della Tossicità







Molto spesso nella quotidiana ci si imbatte in domande frequenti le quali hanno spesso un riscontro informativo errato, inappropriato o insufficiente. Una di queste è quella che vede come argomento principale la Tossicità di una alimento o di uno o più dei suoi componenti. Per definizione si sa che la Tossicità equivale alla capacità di un alimento o di uno o più sostanze di indurre effetti nocivi negli organismi viventi sia di breve effetto che di lungo effetto.

Tuttavia per capire su quali basi la scienza moderna e la medicina ci danni delle linee guida fondamentali per indicare la Tossicità è opportuno analizzare le componenti che servono e sono comunemente analizzate per determinare il grado di potenziale tossicità di una sostanza.
Le variabili da analizzare sono: La conoscenza, lo studio delle possibili vie, studio del meccanismo di azione, la diffusione, Fasi e fattori.


Per poter indicare il possibile e poi lo specifico grado di tossicità di una sostanza è opportuna analizzare in dettaglio la dose letale, dove si tende a valutare la quantità minima necessaria a scatenare la reazione nell’organismo, Le vie di introduzione con le quali si comprende come il tossico penetra nell’organismo ma soprattutto capire quali possono essere le specifiche vie di blocco di tale passaggio.

La frequenza dell’introduzione la quale a livello medico è utile per capire la cronologia delle abitudine del paziente nei confronti della sostanza tossica, il livello di intossicazione con il quale si comprende la quantità di tossico ingerita e di conseguenza l’azione correttiva da effettuare infine il tempo necessario alla comparsa degli effetti. Quest’ultima in microbiologia, ad esempio, separa la sottile linea tra intossicazione ed infezione alimentare, nella prima infatti la comparsa dei sintomi si manifesta molto prima che nel caso di una infezione.

Un piano completo sulla valutazione del tossico necessita anche di uno studio del rischio chimico-tossicologico ottenuto per lo più in base a studi su organismi viventi diversi dall’uomo( le moderne normative tendono a ridurre questi studi sugli animali) come la valutazione della tossicità acuta, subacuta e cronica, il potere cancerogeno sia di breve o di screening che di lungo termine, sulla riproduttività cercando di capire il legame tra tossico e fertilità sia nel maschio che nella femmina non che  l’attività teratogena cioè sull’embrione e le malformazioni, infine studio sulle correlazioni tra mutagenesi e cancerogenicità.

Questi parametri permettono di ottenere dei dati che introdotti in un software danno delle definizioni:
DL50 sta per "Dose Letale 50   NOAEL NOEL DGA

·         In tossicologia il termine DL50 sta per "Dose Letale 50" ("Lethal Dose 50") e si riferisce alla dose di una sostanza, somministrata in una volta sola, in grado di uccidere il 50% (cioè la metà) di una popolazione campione di cavie (generalmente ratti, ma anche altri mammiferi come cani, quando il test riguarda la tossicità nell'uomo). Oggi questo parametro tossicologico non è più in uso per motivi etici ed economici.
            Allo stesso modo viene definito l'LD90, in relazione al 90% di una popolazione di cavie.
·         Il NOAEL è un acronimo derivante dall'inglese: "No Observed Adverse Effect Level" (traducibile in italiano come "dose senza effetto avverso osservabile").
Il NOAEL è un parametro utilizzato in tossicologia e, basato su osservazioni, esperimenti o test, esprime la dose massima di uno xenobiotico che può essere somministrato senza che possano essere apprezzati effetti tossici.
·         La tossicologia industriale contribuisce a definire, in base alla migliore evidenza scientifica disponibile, i cosiddetti limiti di esposizione occupazionale, ovvero il valore limite della concentrazione ambientali delle sostanze chimiche aero disperse al di sotto delle quali si ritiene che la maggior parte dei lavoratori possa rimanere esposta ripetutamente giorno dopo giorno, per una vita lavorativa, senza effetti negativi per la salute. In tal caso si può parlare di  NOEL (no observed effect level) definita come dose priva di qualsiasi effetto biologico.

·         La dose giornaliera accettabile (sigla DGA), dall’inglese Acceptable Daily Intake (ADI), è un valore utilizzato in tossicologia e rappresenta la quantità tollerabile di una sostanza che un uomo, in base al suo peso, può assumere giornalmente e per tutta la vita senza effetti avversi riconoscibili secondo lo stato attuale delle conoscenze.



Il grafico proposto si riferisce al fattore DL 50 applicato ad una terapia, si evince che anche in campo farmacologico l'indice terapeutico è influenzato da questo fattore per comprendere la dose accettabile da somministrare.





Per capire gli effetti biologici delle sostanze tossiche si necessita spesso dello studio sul meccanismo d’azione dei tossici il quale dipende da una complessa serie di fenomeni schematizzabili in tre fasi: la fase di esposizione durate la quale il tossico presente nell’ambiente o nell’alimento può venir a contatto con il soggetto , la fase tossicocinetica, durante la quale c’è l’assorbimento la distribuzione della sostanza nell’organismo la sua trasformazione metabolica e l’eliminazione, la fase tossicodinamica che valuta l’interazione con il tessuto bersaglio.

Il passaggio dalla fase di esposizione a quella tossicocinetica determina la disponibilità fisico-chimica della sostanza mentre il passaggio dalla fase tossicocinetica a quella tossicodinamica determina la biodisponibilità della sostanza.

La fase di esposizione è la fase più importante poiché coinvolge tutti gli individua a prescindere dalla abitui e dalle classi sociali dipende dall’igiene e dalla sicurezza sul lavoro, dagli aspetti nutrizionali, da quelli fisico-chimici dalla abitudini alimentari.

Ciò che invece è legata maggiormente agli addetti ai lavori sono le Diffusioni cioè capire il trasporto attivo e passivo di tali sostanze tossiche una volta penetrate nell’organismo. C’è da dire che il trasporto attivo è rarissimo mere quello passivo è ben noto questa tende a stabilire un equilibrio tra concentrazioni da ambo le parti di una membrana biologica e l’accumulo della sostanza tossica nella cellula è paragonabile all’equilibrio ripartizione olio-acqua:
Ca= C2
Dove Ca è la concentrazione tossico della fase acquosa e C1 è la concentrazione tossico della fase lipidica
Quindi considerando i fattori di bioaccumulazione pe Ca e C cioè K1 e K2 si conclude che il fattore di bioaccumulazione è proporzionale al coefficiente di ripartizione.






Molecole della famiglia degli idrocaruri policiclici aromatici presenti in alcuni alimenti  di cui è ormai nota la loro tossicità. C'è da dire che gli idrocarburi aromatici policiclici, oltre ai combustibili fossili, possono essere anche liberati dalla combustione di altri substrati; tra questi: rifiuti, tabacco, incenso, LEGNA, CARBONELLA e GRASSI.

<p style="display: none;"><cite><a href="http://www.my-personaltrainer.it/alimentazione/idrocarburi-aromatici-policiclici.html">Idrocarburi aromatici policiclici: tossicità e morte</a></cite> da http://www.my-personaltrainer.it/alimentazione/idrocarburi-aromatici-policiclici.html</p>



















L’IMBRUNIMENTO NON-ENZIMATICO DELLA REAZIONE DI MAILLARD


Le immagini avvolte possono ingannare. Oggi non parliamo di carne con patate e non trattiamo di alcuna ricetta ma tratteremo , diciamo così, della "base" della Chimica dell'alimentazione: La Reazione di Maillard.




La cucina è arte, come arte è la panificazione, la produzione dolciaria, il saper fare una buona frittura. Ebbene, c’è una cosa che accomuna queste quattro procedure: La reazione di Maillard. Per i non addetti ai lavori il nome Maillard non evoca nulla anzi appare come un nome come tanti, in realtà per il mondo alimentare è un nome conosciuto ed importante soprattutto in certi ambiti. Per Reazione di Maillard (RM) si intende una serie complessa di fenomeni che avviene in seguito all’interazione di zuccheri “riducenti” (carbonile che reagisce) e proteine (gruppi NH2) in processi ad alte temperature e in condizione di bassa attività dell’acqua (AW).

    











foto: reazione tra uno zucchero e L'AA Asparagina

 I composti che si formano dalla RM sono di colore bruno e per questo motivo la RM è conosciuta come reazione di imbrunimento NON enzimatico e hanno gli aromi caratteristici di “cotto” quali il pane appena sfornato o, se il processo è stato più intenso di tostato come la frutta secca, il cacao o il caffè. E’ quindi una reazione fondamentale nella tecnologia alimentare in quanto: Conferisce agli alimenti colore ed aroma, avviene in tutti i prodotti in funzione del tempo e della temperatura di trattamento a patto che vi siano proteine e zuccheri riducenti. Riamane una curiosità; 


Chi ha scoperto la Maillard? 


La reazione prende il nome da Louis Camille Maillard (in foto a destra), un chimico francese che nel 1912 osservò l’imbrunimento in soluzioni di zuccheri e amminoacidi/proteine. Per quanto Maillard avesse compreso che la reazione poteva avere un grande interesse in molti settori della scienza chimica e biomedica, la descrizione completa dei processi che governano l’imbrunimento enzimatico negli alimenti furono descritti solo negli anni 50 da un chimico di colore dell’Illinois di nome John Hodge.
Tuttavia, si può dire che la reazione di Maillard è forse la più importante reazione chimica della cucina poiché dal pane alla torta, dalla bistecca alle patatine fritte passando per il caffé tostato, la reazione di Maillard è quella che attribuisce ai cibi il tipico aspetto finale, il gusto di cibo cotto l’aroma e soprattutto la Tipicità del prodotto. Si tratta quindi di un effetto desiderabile e l'unica cautela è non esagerare, per non rischiare di bruciare il prodotto e non ottenere ciò che si attendeva.
Per una buona reazione di Maillard la temperatura dovrebbe mantenersi tra i 140 e i 180 gradi Centigradi, mentre la superficie di contatto con l'alimento dovrebbe essere in metallo.

Alcuni alimenti come le carni bianche possono essere poveri degli zuccheri necessari. In questo caso si possono aggiungere vino, limone o arancia, oppure fare una leggera glassatura col miele. Il comune zucchero da cucina invece, il saccarosio, così com'è non va bene. Perché favorisca la reazione di Maillard è necessario che sia scomposto nei suoi componenti principali, glucosio e fruttosio, ciò che si può ottenere combinandolo con vino o altre sostanze acide come il limone. Per questa ragione la marinata è un ottimo accorgimento per favorire la reazione di Maillard.
L'aggiunta di sostanze basiche come il bicarbonato da cucina, infine, costituisce un forte acceleratore delle reazioni di Maillard. 


LA BUGIA DEL CARAMELLO

Non tutti i processi di imbrunimento non-enzimatico sono, tuttavia, dati dalla reazione di Maillard ne è un esempio la degradazione al quale va incontro il comune zucchero domestico (saccarosio) quando è fatto fondere, eventualmente con una traccia di succo di limone per abbassare il pH, per formare caramello: questo è un esempio di reazione di Pirolisi terribilmente complicata ma che riguarda solo e soltanto una tipologia di molecola di partenza, il saccarosio appunto, e per quanto origini un prodotto multi-componente dotato di aroma, colore e consistenza caratteristici, il caramello, non può essere annoverata fra le reazioni di Maillard. 


Si commetterebbe un errore se a questo punto si affermasse che tutte le molecole che contribuiscono all’aroma che un alimento sviluppa durante da cottura si originano a partire dalla combinazione di uno zucchero riducente e di un aminoacido o di loro derivati.


In realtà una grande quantità di molecole fra le quali zuccheri semplici, acidi grassi insaturi, nucleotidi derivanti dall’RNA, composti solforati, vitamine, aminoacidi possono trasformarsi singolarmente o reagendo fra loro secondo una successione di reazioni diverse da quelle dette appunto di Maillard.







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DALLA TAZZINA ALLA “BRACE”


DALLA STORIA ALLA REALTA’



La storia del caffè inizia tra mito e leggenda e la leggenda più nota è quella che ci perviene dal Medio Oriente dove, secondo la tradizione uno dei monaci del Monastero Chehodet, nello Yemen, avendo saputo da un pastore di nome Kaldi che le sue capre ed i suoi cammelli si mantenevano energici e vivaci anche di notte se mangiavano delle strane bacche, preparò con queste una bevanda nell' intento di restare sveglio per poter pregare più a lungo. Ma non è certamente leggenda la tecnologia di produzione ed il processo per l’ottenimento del caffè. E’ proposta qui la filiera di produzione che garantisce gli aspetti essenziali e i cosiddetti target aziendali del caffè su larga scala.
Lo stabilimento di produzione è di sicuro il luogo principe per produrre il caffè torrefatto, tuttavia non bisogna dimenticare l’importanza della materia prima che nel nostro caso è proprio il chicco di caffè. L’azienda dovrà infatti mantenere viva la comunicazione e i contatti con le sedi di coltivazione per poter avere sempre lo stesso prodotto richiesto, con tutte le sue caratteristiche; per far sì il reparto di ricerca e sviluppo in collaborazione con quello del controllo qualità selezioneranno le aree di coltivazione, i coltivatori e le loro tecniche usate per ottenere la crescita della pianta secondo la loro mission. E’ proprio da una pianta che si parte, la quale coltivata nel modo corretto ci darà dei fiori bianchi e poi dei frutti, delle piccole bacche a grappolo di color rosso. Inizialmente un chicco di caffè verde germina dopo alcune settimane dalla piantata; dopo due mesi compaiono le prime foglie, mentre per i primi frutti (drupe) bisogna attendere almeno 3-5 anni. In compenso, le piante adulte di caffè offrono ogni anno splendide fioriture, il cui profumo ricorda il gelsomino con sentori al limone, mentre le foglie sono ovali ed i fiori di colore bianco. All'interno dei frutti (simili a ciliegie), troviamo due semi avvolti in una pellicola argentea e racchiusi in una membrana coriacea, denominata "Pergamino”. I chicchi della specie Arabica sono allungati ed ovali, mentre quelli di Robusta sono più piccoli e con il taglio interno diritto.

LA RACCOLTA

Coltivato e portato alla giusta maturazione il chicco di colore bruno viene raccolto con due sistemi principali ed una variante:






Picking
Con il picking le ciliege vengono raccolte una ad una, manualmente. Se consideriamo che le drupe non maturano tutte insieme, ma in un periodo piuttosto lungo e in diverse fasi, capiremo quanto sia costoso questo metodo. Sicuramente questa tecnica offre i migliori risultati qualitativi.

Stripping
Più veloce e meno costoso del precedente, nello stripping tutti i frutti vengono sgranati dal ramo in un unico raccolto, asportando quindi non solo bacche mature, ma anche bacche con diversi livelli di maturazione (quindi anche verdi e troppo mature).

Meccanico
Una variante del secondo metodo può avvenire anche per mezzo di particolari macchinari che, scuotendo gli alberi fanno cadere le bacche. Altri tipi di macchinari, muniti di pettini speciali, strappano non solo le ciliegie, ma anche le foglie.



Il CONTROLLO QUALITA’ ALL’INGRESSO


Prima dell’insilaggio un panel di esperti controlla la qualità del prodotto possono assaggiare anche oltre le 10.000 tazze di caffè all’anno. Il caffè verde viene sottoposto a severi controlli qualitativi per singola origine. Solo a questo punto viene autorizzato l’insilaggio per qualità. Successivamente le macchine vibrovagliatrici, attraverso varie fasi, eliminano eventuali impurità e corpi estranei presenti. In una prima fase tendono a separare il caffè da eventuali corpi leggeri, come ramoscelli, foglie e legnetti. In seguito viene separato dai corpi pesanti. La fase successiva, ovvero lo stoccaggio, è effettuato in silos della capacità totale di circa 700.000 chilogrammi.

LA PROCESSAZIONE DEI CHICCHI

La materia prima trasportata all’area di produzione viene processata nella fase di Separazione. Qui si procede ad effettuare la separazione dei chicchi dalla polpa e per far ciò si usano principalmente due tecniche: il metodo a secco e in umido. Nella lavorazione a secco, i frutti vengono fatti essiccare al Sole o in essiccatrici per diversi giorni e, in seguito, per mezzo di macchine decorticartici si procede all'estrazione dei chicchi.

Con il secondo metodo, più costoso, i chicchi passano attraverso macchine sbucciatrici per separarli dalla polpa e, successivamente, subiscono una fermentazione in serbatoi pieni d'acqua per togliere i resti della polpa. In seguito, vengono lavati ed essiccati, al sole o tramite macchinari specifici, e continuamente girati per evitare la formazione di muffe; in un paio di settimane la polpa scompare. In seguito, si provvede a separare ciò che di secco rimane attorno al chicco.
La lavorazione in umido produce chicchi di qualità più elevata, i cosiddetti "lavati", con caratteristiche aromatiche superiori rispetto a quella a secco, che dà invece origine ai caffè "naturali".





A questo punto, i chicchi vengono selezionati manualmente o tramite macchinari, per eliminare chicchi difettosi e determinare le diverse grandezze. Infine, i chicchi migliori vengono generalmente confezionati in sacchi di iuta dal peso di 60 kg cadauno, marchiati con una sorta di carta di identità (paese di provenienza, tipo di caffè...).





LA MISCELAZIOE E LA TOSTATURA

Fondamentale per la riuscita di un buon espresso è certamente la fase della miscelazione.
Per un’adeguata miscelazione del caffè, vanno tenuti in considerazione svariati aspetti della materia prima: se Arabica o Robusta, se caffè naturali o lavati, se sudamericani, africani o asiatici, le percentuali degli stessi e, chiaramente, il livello qualitativo del caffè nonché il target produttivo dell’azienda, infatti ogni realtà produttiva ha un proprio obiettivo e una propria mission che racchiude tutte le caratteristiche iniziali, finali e di processo del proprio prodotto. Ogni ricetta ha il proprio segreto che ovviamente le imprese non riveleranno mai.
All'interno della macchina tostatrice, “l’oro moderno” viene riscaldato ad una temperatura che va dai 200 ai 230°C. Ciò va fatto in modo uniforme per garantire un prodotto omogeneo.
Nel processo di torrefazione, il chicco perde il proprio peso nella misura del 18 - 20%, a seconda della provenienza del caffè, e aumenta il suo volume addirittura del 60%. Avviene poi la formazione degli aromi del caffè, presenti in diverse centinaia. La consistenza del chicco varia da dura a friabile e sulla superficie cominciano ad apparire una serie di olii. La colorazione invece dipende dai gradi di temperatura raggiunti: più lo si tosta (con il rischio di bruciarlo) più assume una colorazione bruna ed il sapore tende all'amaro. Più rapidamente il chicco viene raffreddato, meglio vengono mantenuti gli aromi. 








La durata dell'intero processo varia in base al tipo di tostatura (in media è di 15 minuti circa), però l'esperienza del tostatore che sa riconoscere il “momento giusto” può far concludere il ciclo anche in base alla "musica" che i chicchi producono.


La reazione di Maillard è la reazione cardine che avviene durante la tostatura I composti che si formano dalla RM sono di colore bruno scuro (per questo motivo la RM è conosciuta come reazione di imbrunimento NON enzimatico) e hanno gli aromi caratteristici di “cotto”, qui nel caffè la reazione è spinta fino a tostare il chicco ciò significa che la reazione si è protratta fino alla totale colorazione e tostatura del prodotto. Le componenti chimiche coinvolte nella reazione sono gli zuccheri riducenti, gli Amminoacidi basici l’ossigeno, l’acqua e la temperatura idonea.





CAFFE' TOSTATO


 CAFFE' NON TOSTATO










La tostatura è la fase più delicata del processo produttivo del caffè. Per questo molte aziende hano messo a punto una sofisticata tecnologia che, attraverso un rigoroso controllo dei flussi di aria calda e fredda, sono in grado di garantire la perfetta cottura del chicco ed esaltare le sue specifiche caratteristiche organolettiche. Ogni diversa origine di caffè verde viene tostata singolarmente.
Esistono diversi cicli di tostatura che si dividono in lenta, rapida e semi rapida, tuttavia dedicare tempi molto più lunghi alla tostatura, dai 15 ai 18 minuti ha lo scopo di esaltare le potenzialità aromatiche dei singoli caffè. I caffè torrefatti vengono dunque raffreddati ad aria nelle apposite vasche a pale rotanti e pesati per verificarne il calo di peso, che può variare, a seconda dell’origine del chicco, dal 17% al 20% del peso iniziale. Il caffè tostato viene sottoposto a un’ulteriore selezione per eliminare quei corpi estranei residuali che per effetto del diverso peso specifico non sono stati esclusi nella fase precedente di selezione e pulizia. Il caffè è quindi trasferito in circuito chiuso ai sili del caffè torrefatto, dove rimane per un certo periodo a stagionare e de-gasare. In seguito è pronto per essere miscelato o macinato.



LA MACINATURA

La macinatura avviene attraverso un impianto in grado di controllare gli standard granulometrici previsti per ogni specifica linea di prodotti. Il rispetto di tali parametri diventa essenziale al fine di garantire al consumatore finale il miglior risultato in tazza, sia per espresso che per moka.








IL CONFEZIONAMENTO

 Le linee di confezionamento presenti negli stabilimento di Caffè possono presentare un numero variabile, a seconda che si tratti di caffè in grani, macinato, in cialde o in capsule. Una linea è riservata alle confezioni da 1kg e da 500g. due linee da 250g, in formati singoli o multi-pack. Possono inoltre essere presenti linee speciali come le linee cialde espresso e le linee capsule espresso una linea dedicata alle specie pregiate, che produce lattine da 3kg in grani e lattine da 250g di caffè macinato. Inoltre, possono essere installate linee con presse per la produzione delle capsule vuote. Gli impianti sono flessibili e completamente automatizzati. Al fine di una ottimale conservazione del prodotto provvedono all'insufflaggio dell'azoto, alla eliminazione dell’aria nelle confezioni e ai relativi controlli del peso di ogni singola confezione. Le confezioni non idonee vengono automaticamente scartate.


LE ANALISI PER LE CERTIFICAZIONI





I controlli qualità proseguono in ogni fase del ciclo produttivo al fine di identificare i pericoli e i punti critici che danno la non conformità il fuori target aziendale. Per ogni singolo lotto di produzione ci sono oltre 60 diverse analisi che certificano costantemente lo standard dei prodotti finiti.


STOCCAGGIO 

Una volta confezionato, il prodotto è stoccato in un magazzino attrezzato in pallet con una capacità totale variabile fino ed oltre i circa 600.000 chilogrammi, in attesa di essere distribuito.





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Concludiamo il viaggio nella produzione del caffè con due video che mostrano le fasi di cui abbiamo parlato e ne fanno un riassunto rapido e divertente sia sulla lavorazione del caffè da commercializzare in polvere o in chicchi sia del caffè in cialde e capsule.




NOTE: Marchi e video scelti puramente casuali.